lunedì 27 maggio 2024
giovedì 8 ottobre 2020
A 30 anni dalla riunificazione: un confronto sulla convergenza regionale in Germania e in Italia
Nel corso dei
tre decenni successivi alla caduta del muro di Berlino del 9 novembre 1989 la
Germania ha gestito con successo un percorso di riunificazione, avviato il 3
ottobre 1990 con l’incorporazione nella Repubblica Federale Tedesca (Germania
Ovest) dei territori della Repubblica Democratica Tedesca (Germania Est)
costituiti in cinque nuovi lander: Meclemburgo-Pomerania Anteriore,
Brandeburgo, Sassonia, Sassonia-Anhalt e Turingia. Il percorso di
riunificazione ha richiesto un ingente sforzo alla macchina statale tedesca
che, nella prima metà degli anni Noventa del XX secolo, ha ampliato il deficit
di bilancio che è arrivato fino al 9,4% del 1995, 2,4 punti più ampio del 7,0%
della media UE a 15. Nella seconda metà degli anni Novanta il deficit si riduce
e nel 2000 il bilancio statale tedesco torna in positivo. Sale la pressione
fiscale, con le entrate del bilancio che passano dal 43,2% del PIL del 1991 al
massimo storico del 46% nel 1999.
Dalla
riunificazione si è osservato un accentuato processo di convergenza tra Est e
Ovest della Germania – che valutiamo sia in termini di PIL complessivo che in
termini di PIL pro capite – e che mettiamo a confronto con quello registrato
tra regioni del Mezzogiorno e del Centro Nord d’Italia.
Nel 1991 il
Prodotto interno lordo dei cinque lander della ex DDR, valutato a prezzi
correnti, pesava l’11,6% del PIL della ex Repubblica Federale Tedesca; dopo un
decennio, nel 2000, il rapporto sale al 17,6% per stabilizzarsi successivamente
e collocarsi al 17,8% nel 2017.
In parallelo
a questo favorevole andamento nella maggiore economia europea si osserva la
mancata convergenza per le regioni del Mezzogiorno d’Italia. Nel 1991 il PIL
delle regioni meridionali era pari al 33,5% di quelle del Centro Nord;
nell’arco del successivo decennio tale rapporto scende progressivamente per
arrivare al 32,1% nel 2000. Nel corso del XXI secolo il peso del PIL delle
regioni meridionali si riduce ulteriormente, arrivando al 29,0% nel 2017.
Nel 1991 il
PIL pro capite nei territori dell’ex DDR era il 46,7% di quello rilevato nei
territori dell’ex Germania Ovest; nel 2000 il rapporto sale al 66,3% e nel 2017
arriva al massimo del 73%. Nel Mezzogiorno, all’ inizio degli anni Novanta del
secolo scorso, il PIL pro capite era il 59,1% di quello delle regioni del
Centro Nord, nel 2000 il rapporto scende al 56,7% e nel 2017 si ferma al minimo
storico del 57,7%.
L’analisi
delle statistiche storiche di Daniele e Malanima nel paper ‘Il prodotto delle
regioni e il divario Nord-Sud in Italia (1861-2004)’ evidenzia, tra l’altro,
che “divari rilevanti fra regioni, in termini di prodotto pro capite, non
esistessero prima dell’Unità” e “che si siano aggravati di nuovo in seguito
alla riduzione dei tassi di sviluppo dell’economia dai primi anni ’70 in poi”.
Un contributo alla riduzione del divario Nord-Sud nel nostro Paese può arrivare da un modello di sviluppo sostenibile in grado di liberare le risorse del sistema di micro e piccola impresa diffuso nel Mezzogiorno il quale, negli ultimi anni, ha mostrato un particolare dinamismo. Come sottolineato, infatti, nel Rapporto ‘Evidenze sul sistema di piccola impresa nel Mezzogiorno’ predisposto per la Convention Mezzogiorno 2019 di Confartigianato tenutasi a Matera il 17 e 18 ottobre 2019 – clicca qui per scaricarlo – nell’arco del triennio di ripresa 2014-2017 l’occupazione delle piccole imprese del Mezzogiorno è salita del 6,0%, un ritmo più che doppio del +2,6% rilevato nel Centro-Nord.
E EX DDR/EX GERMANIA OVEST
1991, 2000,2010, 2017, valori %, PIL a prezzi correnti – Elaborazione Ufficio Studi Confartigianato su dati Istat, Commissione europea ed Eurostat
giovedì 6 febbraio 2020
Eurispes - Rapporto Italia 2020: Il Mezzogiorno al di là delle fake news
Nel 2016 lo Stato italiano ha speso 15.062 euro pro capite al Centro-Nord e 12.040 euro pro capite al Meridione. In altre parole, ciascun cittadino meridionale ha ricevuto in media 3.022 euro in meno rispetto a un suo connazionale residente al Centro-Nord. Nel 2017, si rileva un'ulteriore diminuzione della spesa pubblica al Mezzogiorno, che arriva a 11.939 (-0,8%), mentre al Centro-Nord si riscontra un aumento dell'1,6% (da 15.062 a 15.297 euro). emerge una realtà dei fatti ben diversa rispetto a quanto diffuso nell'immaginario collettivo che vorrebbe un Sud "inondato" di una quantità immane di risorse finanziarie pubbliche, sottratte per contro al Centro-Nord.
Dal 2000 al 2007 le otto regioni meridionali occupano i posti più bassi della classifica per distribuzione della spesa pubblica. Per contro, tutte le Regioni del Nord Italia si vedono irrorate dallo Stato di un quantitativo di spesa annua nettamente superiore alla media nazionale.
Se della spesa pubblica totale, si considera la fetta che ogni anno il Sud avrebbe dovuto ricevere in percentuale alla sua popolazione, emerge che, complessivamente, dal 2000 al 2017, la somma corrispondente sottrattagli ammonta a più di 840 miliardi di euro netti (in media, circa 46,7 miliardi di euro l'anno).
Il Prodotto interno lordo al Nord Italia dipende molto poco dalle esportazioni all'estero e per grossissima parte invece dalla vendita dei prodotti al Sud, il quale a sua volta nei confronti dello scambio di prodotti con il Nord Italia mostra valori in perdita di diversa gravità.
La situazione di import-export tra Nord e Sud Italia, tutta a vantaggio del Settentrione è resa possibile, paradossalmente, proprio da quei tanto discussi trasferimenti giungenti da Nord a Sud, come frutto delle tasse pagate dal Settentrione. Se questi ultimi infatti fossero oggi annullati o semplicemente ridotti, il primo a farne le spese sarebbe proprio il Nord, subendone le conseguenze peggiori.
A conti fatti, a fronte dei 45 miliardi di euro di trasferimenti che ogni anno si sono spostati da Nord a Sud, ve ne sono stati altri 70,5 pervenuti al Nord compiendo il percorso inverso.
«Dunque, ogni ulteriore impoverimento/indebolimento del Sud si ripercuote sull'economia del Nord, il quale vendendo di meno al Sud, guadagna di meno, fa arretrare la propria produzione, danneggiando e mandando in crisi così la sua stessa economia». Conclude il Presidente dell'Eurispes.
Fondi utilizzati: al Sud performance migliore della media nazionale
I programmi di sviluppo regionali (e anche quelli nazionali) che si avvalgono del Fondo Sociale Europeo (FSE) e del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale (FESR) per il ciclo 2014-2020, hanno potuto disporre di una dotazione di ben 35,5 miliardi di euro totali, stanziati per il 60% dal budget europeo e per il resto dal cofinanziamento nazionale.
Alla fine del 2019, le Regioni italiane hanno speso in totale 7,4 miliardi. I progetti investono un ammontare complessivo di 25,8 miliardi di euro, cioè il 69% del totale dei vari programmi regionali (IFEL, 2019).
Le regioni in ritardo di sviluppo (Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) registrano una spesa che è mediamente minore di quella media nazionale (18% contro 23%). Tuttavia, se consideriamo gli impegni di spesa, le stesse Regioni raggiungono in media il 72% dell'intera programmazione, che è un dato più alto del 3% rispetto alla media nazionale. Questi dati smentiscono una performance peggiore di queste Regioni rispetto alle altre. Diverso, invece, è parlare dell'efficacia della spesa, cioè dell'impatto che questa spesa (piccola o grande) avrà sui territori.
https://eurispes.eu/news/eurispes-risultati-del-rapporto-italia-2020/
venerdì 31 gennaio 2020
Carabinieri: Gravi colpe "dell'invasore" piemontese
martedì 19 marzo 2019
La questione meridionale? Nasce con l’Unità d’Italia
Quando è iniziata la divaricazione tra Nord e Sud Italia? A favorirla sono state le politiche economiche dei primi governi dopo l'unificazione del paese. Ed è una lezione che andrebbe tenuta a mente ancora oggi, quando si parla di federalismo differenziato.
Dal Medioevo al Risorgimento
Lo scontro sul federalismo differenziato è solo l'ultima manifestazione della questione meridionale.
Secondo diversi studiosi, l'origine dell'attuale divario economico tra Nord e Sud sarebbe da ricercare nella esperienza comunale medievale, che avrebbe aiutato il primo a sviluppare un maggiore civismo e, quindi, mercati più competitivi e un'amministrazione più efficiente (Robert Putnam e altri). L'ipotesi è coerente con le altre spiegazioni del fenomeno: il maggiore potere delle élite latifondiste (Emanuele Felice), la natura più marcatamente feudale (Antonio Gramsci) e la maggiore arretratezza tecnologica (Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino) che caratterizzava il Regno delle Due Sicilie rispetto agli altri stati preunitari.
Per quanto attraente nella sua linearità, l'ipotesi risulta troppo semplicistica. Due recenti risultati chiariscono il perché. Serra Boranbay e Carmine Guerriero mostrano che la correlazione tra il civismo di oggi e l'inclusività delle istituzioni politiche medievali svanisce se si considera il civismo passato. Mentre Giovanni Federico, Carlo Ciccarelli e Stefano Fenoaltea e Paolo Malanima documentano che i due blocchi erano parimenti sottosviluppati nel 1861, a causa della scarsità di capitale umano, capitale reale e infrastrutture.
Sulla scia di tali risultati, in de Oliveira e Guerriero mostriamo come gli attuali divari Nord-Sud si aprirono principalmente a causa delle politiche economiche dei primi governi postunitari. Dominati dall'élite settentrionale, che produsse l'85 per cento dei presidenti del consiglio, tutti i prefetti e il 60 per cento dei vertici amministrativi (Christopher Duggan), quei governi favorirono, tra le tredici regioni annesse dal Regno di Sardegna nel 1861, quelle più vicine ai confini militarmente più rilevanti per i Savoia e minarono civismo, capitale umano e crescita di quelle più distanti (figura 1).
Figura – La rilevanza politica delle regioni annesse dal Regno di Sardegna
Nota: Le regioni annesse dal Regno di Sardegna nel 1861 sono divise in tre gruppi a seconda della relativa rilevanza politica, definita come l'inverso della distanza tra la città principale della regione e la capitale del più temibile tra gli stati nemici dei Savoia: Vienna nei periodi 1801-1813, 1848-1881 e 1901-1914, e Parigi negli altri.
La riforma protezionista del 1887, per esempio, non salvaguardò l'arboricoltura meridionale schiacciata dal declino dei prezzi internazionali degli anni Ottanta, ma protesse le industrie tessili e siderurgiche settentrionali sopravvissute al periodo liberista grazie alle commesse statali (Guido Pescosolido). Una logica simile guidò, poi, le bonifiche agrarie, l'assegnazione del monopolio del conio alla piemontese Banca Nazionale, l'affidamento dei monopoli nella costruzione e operazione di navi a vapore alle genovesi Rubattino e Accossato-Peirano-Danovaro e, soprattutto, la spesa pubblica nella rete ferroviaria (figura 2), che rappresentò il 53 per cento del totale tra il 1861 e il 1911 (Giovanni Iuzzolino e altri).
Figura 2 – Reddito, potere politico, tasse sulla proprietà fondiaria e strade ferrate
Nota: "GDP-L" è il reddito in lire pro capite del 1861, "Political-Power" rappresenta la percentuale di primi ministri nati nella regione. Mentre "Land-Taxes" è il gettito della tassa sulla proprietà fondiaria in lire pro capite del 1861, "Railway" indica la lunghezza delle strade ferrate costruite nel decennio precedente in km per km quadrato.
Fonte: de Oliveira e Guerriero (2018)
A peggiorare la situazione, quell'investimento pubblico fu in buona parte finanziato da imposte sulla proprietà fondiaria altamente squilibrate. La riforma del 1864 fissò, infatti, un "contingente" di 125 milioni da raccogliere per il 10 per cento dall'ex Stato pontificio, per il 40 per cento dall'ex Regno delle Due Sicilie e per il 21 per cento (29 per cento) dall'ex Regno di Sardegna (resto del Regno d'Italia) (figura 2). Date le differenze tra i catasti regionali e la conseguente impossibilità di stimare la redditività agraria, queste politiche fiscali, insieme alla mancanza di un efficiente sistema bancario, ebbero al Sud conseguenze estremamente negative sugli investimenti privati (Giannino Parravicini), nonostante la perequazione avviata nel 1886. Nei decenni successivi, un fiorente settore manifatturiero si affermò nel Settentrione, mentre il connubio tra limitata spesa pubblica e alta tassazione compromise, nel resto della penisola, l'agricoltura orientata all'esportazione, il settore industriale e la relazione stessa tra cittadini e stato (figura 3), come suggeriscono le 150 mila vittime del brigantaggio e l'emigrazione di massa di inizio Novecento (Vera Zamagni).
Le politiche dopo l'unificazione
Nel nostro lavoro, ci siamo focalizzati sul periodo 1861-1911, nel quale le politiche economiche variarono a livello regionale. L'economia nazionale era allora prettamente agraria, perciò abbiamo scelto come misura diretta dell'imposizione fiscale il gettito delle tasse sulla proprietà fondiaria pro capite in lire del 1861 e lo abbiamo messo in relazione con la produttività dell'agricoltura orientata all'esportazione, a una misura inversa dei costi di esazione e alla misura inversa della rilevanza politica (figura 1).
Le nostre stime mostrano che, prima dell'unificazione, la tassazione diminuiva con la produttività agricola di ciascuna regione, ma non era legata alla sua rilevanza politica. Dopo il 1861 è vero il contrario. I risultati sono coerenti con il maggiore potere militare, e quindi impositivo, dello stato postunitario. Inoltre, le variazioni nella tassazione (misurate dalla differenza tra gettito pro capite postunitario e quello previsto attraverso le stime preunitarie) e il peso delle altre politiche impositive sono legati a un maggiore deterioramento del civismo, a un più lento calo dell'analfabetismo e a una minore crescita (figura 3).
Figura 3 – L'origine unitaria dell'attuale divario economico tra Nord e Sud Italia
Nota: "Distorsion-LT" è la stima delle distorsioni nei livelli della tassazione della proprietà fondiaria in lire pro capite del 1861, "Distorsion-R" rappresenta quella delle distorsioni nella lunghezza delle strade ferrate costruite nel decennio precedente in km per km quadrato. "Culture-N" è la percentuale di popolazione attiva impegnata in attività politiche, sindacali e religiose, "Illiterates-N" indica la percentuale degli analfabeti nella popolazione oltre i sei anni. Le due ultime misure sono normalizzate in modo che la loro media nel 1861 sia 1.
Fonte: de Oliveira e Guerriero (2018)
Va poi escluso che quelle politiche fiscali fossero l'inevitabile prezzo per partecipare alla seconda rivoluzione industriale (Rosario Romeo). In primo luogo, non hanno modificato il valore aggiunto del settore manifatturiero. In secondo luogo, mentre l'investimento ferroviario preunitario fu guidato dal bisogno di trasportare grano, quello postunitario fu determinato solo dalla rilevanza politica (figura 3) e fu inutile nella creazione di un mercato interno che assorbisse le produzioni più penalizzate dal calo della domanda internazionale.
Dalla dinamica istituzionale che ha caratterizzato l'inizio della nostra storia unitaria si può dunque trarre una lezione utile ancora oggi: politiche economiche che favoriscono solo una parte del paese possono avere un impatto drammatico e duraturo sulle scelte del resto della nazione.
BIO DELL'AUTORE
GUILHERME DE OLIVEIRA
Columbia Law School
CARMINE GUERRIERO
Carmine Guerriero è "Rita Levi-Montalcini" RTDb al DSE dell'Università di Bologna e si è occupato sinora delle determinati delle istituzioni legali, regolamentari e politiche. Ha ottenuto il suo PhD in Economia dall'Università di Cambridge nel 2010. Dal 2009 al 2015 è stato Assistant Professor e Program Director all'ACLE (University of Amsterdam). Inoltre, dal 2012 è associate editor della International Review of Law and Economics, dal 2014 Co-Primary Investigator del progetto Nomography e dal 2019 co-editor dei Cambridge Elements in "Law, Economics and Policy." Infine, ha ricevuto l'"EARIE Paul Geroski" award prize nel 2007, l'"Hans-Jurgen-Ewers" Prize nel 2011 e il premio "Rita Levi-Montalcini" nel 2016 e ha pubblicato sul Journal of Law and Economics, Journal of Comparative Economics, e Oxford Journal of Legal Studies.
Articolo pubblicato su lavoce.info il 19/3/2019
https://www.lavoce.info/archives/58131/la-questione-meridionale-nasce-con-lunita-ditalia/
mercoledì 29 agosto 2018
Questione meridionale, problema di tutta l’Italia
Vent'anni di bassa crescita
Nell'ultimo ventennio, l'economia italiana ha registrato risultati deludenti, in assoluto e nella comparazione internazionale (tabella 1).
Tabella 1 – Pil in termini reali (vma %)
Fonte: Annual Macro-Economic Database of the European Commission (Ameco).
Conviene ricordarlo anche per raffreddare entusiasmi eccessivi dopo il ritorno alla crescita oltre l'1,5 per cento, come accaduto nell'ultimo quarto dello scorso anno, a prescindere dal verosimile nuovo rallentamento che potrebbe manifestarsi già a inizio 2018.Fonte: Annual Macro-Economic Database of the European Commission (Ameco).
La tendenza a risultati peggiori degli altri paesi è distribuita in modo omogeneo lungo le diverse fasi di crescita-recessione-crescita, come si vede nella tabella 1. Infatti, il semplice calcolo dello scarto tra variazione media del Pil in Italia rispetto all'Unione europea nei diversi periodi evidenzia una penalizzazione del nostro paese che è pari all'1 per cento medio annuo nel primo periodo, si acuisce all'1,5 per cento durante la crisi e ritorna all'1,1 per cento durante l'ultima fase di ripresa.
Il che di per sé indica un problema nella struttura del nostro sistema socio-economico: appare in qualche misura indifferente alle fasi del ciclo, comportandosi peggio in modo costante rispetto al resto dell'Europa (e del mondo).
Il problema è la produttività totale dei fattori, cioè quella parte di prodotto che non è spiegata dall'impiego di lavoro e capitale dentro il motore del sistema come, per esempio, calcolato dalla Commissione europea (tabella 2).
Tabella 2 – Produttività totale dei fattori – (vma %)
Fonte: Annual Macro-Economic Database of the European Commission (Ameco); i dati relativi a Giappone, Australia e Canada non sono stati inclusi perché non disponibili nel periodo considerato nell'analisi empirica.
In un nostro recente lavoro, con dati regionali per l'Italia, abbiamo stimato un modello dove si è ipotizzato che la Ptf dipenda da quattro indici che misurano, rispettivamente, la qualità del capitale umano, l'accessibilità infrastrutturale, il livello di carico burocratico e il livello di illegalità. Questi indici spiegano le accelerazioni o i ritardi di produttività che non sono colti dallo stock di capitale produttivo e dall'occupazione. Nella figura 1 si riportano le dinamiche stimate per la Ptf per le quattro ripartizioni geografiche.
Figura 1 – La Ptf per le macroaree italiane nel periodo 1996-2017
Elaborazione e stime Ufficio studi Confcommercio su dati Istat e Ameco.
Politiche per il Sud
Premesso che le nostre stime aggregate per l'Italia indicano una dinamica della Ptf più piatta di quella evidenziata dai calcoli della Commissione europea, sembra emergere una divaricazione territoriale radicale nel Mezzogiorno rispetto al resto del paese. Se queste stime sono attendibili, hanno implicazioni decisive in termini di politiche.
Per esempio, Tito Boeri in un recente articolo su lavoce.info evidenzia che in media i differenziali di produttività del lavoro tra un'azienda in Lombardia e una in Sicilia sono intorno al 30 per cento, mentre le differenze nei salari nominali a parità di qualifiche e nello stesso settore sono nell'ordine del 5 per cento. Di conseguenza, per rendere più competitive le aziende meridionali, Boeri suggerisce di adottare politiche che portino i salari in linea con i livelli di produttività locali.
I risultati del nostro esercizio portano a indicazioni differenti. Poiché le cause della scarsa produttività del lavoro nel Sud sono imputabili in larga misura alla produttività totale dei fattori – cioè a inefficienze strutturali, materiali e non – una politica di investimenti diretta a migliorare il capitale umano, l'efficienza burocratica, il sistema dei trasporti e ad accrescere il rispetto delle regole, costituirebbe una strategia più efficace della deflazione salariale.
Già Paolo Sylos Labini insisteva sui divari civili tra Nord e Sud, alludendo a disfunzioni più profonde di quelle meramente economiche – il cui processo emendativo non potrebbe certo passare dall'assistenzialismo. Se ripensiamo alle sue suggestioni, che senso avrebbe equalizzare il salario reale alla produttività del lavoro quando questa è strutturalmente inadeguata (anche) in ragione di un contesto deteriorato in modo intollerabile? Suonerebbe come una condanna all'emarginazione, seppure in nome dell'efficienza economica.
20.08.18
Mariano Bella e Silvio Di Sanzo
http://www.lavoce.info/archives/53226/questione-meridionale-problema-di-tutta-litalia/
CONTRO LA SECESSIONE CON SCASSO DEL VENETO BISOGNA FIRMARE, PERCHÈ…/ di Pino Aprile
.
Proponente dell'appello ai presidenti della Repubblica, delle Camere, ai parlamentari, ai cittadini tutti, è il professor Gianfranco Viesti, docente di economia cui si devono gli studi più interessanti degli ultimi decenni sulla Questione meridionale, e una serie di libri destinati non solo alla circolazione accademica, ma soprattutto al grande pubblico, perché sia alla portata di tutti la conoscenza delle ragioni vere e dei modi di creazione e mantenimento del divario Nord-Sud (uno per tutti: "Il Sud vive sulle spalle dell'Italia che produce. Falso").
Viesti è uno dei maggiori esperti di sviluppo regionale, disciplina utile ai governi non orientati geograficamente, come i nostri, perché aiuta a gestire le risorse in modo che le aree che marciano non siano frenate e quelle che, per ragioni storiche o altro, sono state rallentate, possano recuperare.
Per come si sono mossi i governi italiani da un secolo e mezzo, salvo pochi, straordinari ma brevi periodi (non a caso i migliori di sempre), questa difficile ma fondamentale disciplina potrebbe non esistere, da noi. Sembra quasi sovversiva, mirando all'equità!
È compito dei "chierici" onesti esaminare, proporre, discutere e, ove serva, intervenire. Il nostro grazie ai docenti che non si sottraggono al dovere di cittadini che non si limitano ad agire in ambito accademico, ma estendono il loro impegno nella società. Cosa che può aver fastidiose conseguenze, a volte (per le cattedre in "Tutta colpa del Sud", invece, si aprono autostrade).
La scellerata azione della Lega per scappare dall'Italia fregando la cassa è giunta all'ultima tappa: presidenti leghisti dovrebbero essere contrastati nelle loro esagerazioni, da una ministra leghista e veneta alle Regioni, che proclama quale scopo della sua azioni, l'autonomia-secessione dei ricchi. La cosa, poi, dovrebbe essere votata dal Parlamento, cui però non sarà consentita la discussione, né tanto meno, la possibilità di presentare emendamenti, correzioni: sui decreti del governo, si può solo dire "sì" o "no". E se vincesse il no, cadrebbe il governo.
I secessionisti pretenderebbero di "andarsene, restando", ovvero, tenersi i soldi, ma continuando a riceverne dallo Stato, perché vogliono una "autonomia" totale, senza tagliare l'ultimo filo. Insomma, la secessione senza la secessione, per conservare tutti i vantaggi di un Paese formalmente unito (un mercato ampio, grandi appalti pubblici, flussi fiscali del gas, del petrolio, dell'energia prodotti al Sud, peso politico nel mondo…), lasciando tutti gli svantaggi agli altri.
I rappresentanti delle istituzioni non possono tacere dinanzi a questo o la responsabilità storica delle conseguenze graverà sulla loro coscienza (o almeno sui loro nomi).
Il troppo è troppo! Ognuno di noi dovrebbe firmare questo appello.
Chi vuole che il Paese resti uno, non può tollerare che l'egoismo di pochi distrugga la Patria di tutti. Un Paese unito è l'esatto contrario dell'Italia come è stata fatta e tanto peggio come la vogliono ridurre i lanzichenecchi leghisti (con l'appoggio più o meno dichiarato dei rappresentanti del Nord degli altri partiti, dal centrodestra al centrosinistra e M5S).
Chi ritiene che di connazionali del genere meglio fare a meno e pensa che tanto vale smettere di fingere di avere un'Italia unita e riprendersi ognuno la propria autonomia, non può accettare che la cosa avvenga con l'ultimo saccheggio: prima si fanno i conti, poi ognuno si regola come vuole.
Chi considera che le cose non stiano, per fortuna, a questo punto, non può accettare che la furia predatoria dei soliti noti e pure più ricchi (grazie all'inondazione di risorse pubbliche sottratte al resto del Paese) esaperi le condizioni di convivenza al punto tale da renderla insopportabile.
Firmiamo. E che questa gentaglia abbia finalmente la lezione che si merita.