Il Sud è al tracollo. Mai così male, negli ultimi 40 anni. Lo Svimez diffonde cifre da brividi: del 12,7 per cento crollati i consumi; del 4,2 gli investimenti. Solo due volte, dall'unità d'Italia in poi, al Sud ci sono stati più defunti che bambini nati. La prima volta fu nel 1867.
Male, male, male: il divario aumenta e l'occupazione è come fu nel 1977, con 583mila posti di lavoro persi. Il sottosegretario Graziano Delrio parla di "Sud diventato la Germania dell'Est dell'Italia" e il presidente dello Svimez, Adriano Giannola, denuncia: "Negli ultimi 25 anni si è puntato solo sulla locomotiva Nord, dimenticando il Mezzogiorno".
C'è da chiedersi, parlando d'Italia, se privilegiare il Nord nelle scelte politico-economiche sia fenomeno soltanto degli ultimi 25 anni o se, per caso, il nostro non sia sempre stato un Paese nord-centrico nei suoi obiettivi di sviluppo. Il divario economico si ridusse negli anni del boom economico nei primi anni '60 del secolo scorso: lo dicono le cifre del Pil di quel periodo riportate anche dai professori Daniele e Malanima. Periodo che coincise con l'avvio della Cassa del Mezzogiorno, che significò nvestimenti e opere pubbliche in grado di trainare l'economia meridionale.
Una formula non nuova se già nel 1904, al momento dell'approvazione della legge speciale per Napoli, era teorizzata anche da Francesco Saverio Nitti. Che scriveva: "Occorre che Napoli cessi di essere città di consumi per diventare città di produzione. Niente industrie sussidiate, concessioni o forme speciali di protezione, la rinnovazione industriale non può però che avvenire in un regime speciale".
Parliamo esclusivamente d'Italia unita, parliamo delle scelte territoriali e geografiche fatte per eliminare squilibri, per armonizzare tutte le aree della penisola. E partiamo dall'inizio della nostra storia unitaria, guardando agli anni probabilmente premessa delle scelte successive. Scelte legislative, scelte economiche, scelte politiche.
Senza interpretazioni, parlano i fatti. Parlano i dati della prima legislatura, quella che cominciò il 18 febbraio 1861 e fino al 1865 vide avvicendarsi sei governi. Che volto diedero alla nazione in fasce i 443 deputati, eletti da 394.365 italiani? Tra quegli onorevoli, 192 venivano dalle regioni meridionali, 133 da quelle settentrionali, 107 dal centro e 11 dalla Sardegna.
Oggi, Niki Vendola, governatore della Puglia, dice che "l'unità del Paese si raggiunge con la realizzazione delle ferrovie". Se al momento dell'unità, esistevano più percorsi ferroviari al Nord che al Sud, dopo 153 anni cosa si è fatto per eliminare il divario di partenza? Logica avrebbe voluto che, da subito, già alla prima legislatura del regno d'Italia, si fosse scelto di finanziare somme maggiori di investimenti nei collegamenti ferroviari nel Mezzogiorno invece che nel resto della penisola.
E invece? Invece il quadro dei chilometri delle concessioni per opere ferroviarie dal 1861 al 1865 fornisce un insolito criterio di riequilibrio. Un quadro raccolto dal deputato della destra cavouriana Leopoldo Galeotti. Eccolo: 2937 chilometri nell'Italia "superiore", 1481 nella "media", 1805 in quella "meridionale". La somma di chilometri tra Sardegna (che fino al 1863 non aveva neanche un metro di ferrovia) e Sicilia fu di 1847.
Sempre Galeotti ci fornisce le cifre degli investimenti per le strade: 3 milioni 575367 per le "province subalpine" e 2 milioni 500763 per le napoletane. Non esistevano più le Due Sicilie, né il regno Sardo-piemontese. Era il regno d'Italia, con le sue prime scelte parlamentari. E questi sono i numeri.
Illuminanti anche alcune leggi approvate tra il 1861 e il 1865: un prestito di 500 milioni per limitare il disavanzo maturato "per costruire l'Italia". Ancora 226mila lire per il porto di Rimini. Poi, nel 1861, 8 concessioni ferroviarie nel centro-nord e due nel sud. Una delle due assai generica, fu approvata il 28 luglio: "costruzione di strade ferrate nelle province meridionali, napoletane e siciliane". Significativa la legge del 18 agosto, che istituì "succursali e sedi della Banca nazionale nelle province meridionali". Era la Banca centrale dell'ex regno Sardo-piemontese. Non fu consentita, invece, l'apertura di sedi del Banco di Napoli al nord.
Il 5 dicembre si pensò di abolire i "vincoli feudali nelle province lombarde". E poi si unificarono pesi e misure, moneta e codici secondo le regole in vigore in Piemonte prima delle annessioni. Il 1862 fu l'anno delle leggi per nuove tasse: sui biglietti ferroviari, sul registro, sul bollo, sulle società industriali, commerciali e delle assicurazioni, sulle ipoteche, sull'Università, sul bollo delle carte da gioco, sui redditi della ricchezza mobile. E poi, due anni dopo, un secondo prestito per appianare il disavanzo: stavolta di 700 milioni, nel 1863.
Questo fu il primo stampo dell'Italia unita ancora neonata. Inutile negarlo: l'impronta prevalente porta il marchio dei deputati del nord. Nei primi 20 anni d'unità ebbero il sopravvento, per una serie di ragioni che qui sarebbe lungo elencare, usi e leggi dell'ex regno subalpino. E lo ammise anche il toscano Leopoldo Galeotti, che nel suo consuntivo sulla prima legislatura pubblicato nel 1866 scriveva: "Non conviene dimenticare che il Parlamento, nella sua quasi totalità (eccettuata la parte piemontese), era composto di uomini nuovi e inesperti. Così la balia di fare e disfare rimase nella sostanza agli uomini della burocrazia. Quello che avveniva ai deputati, toccava anche ai ministri piemontesi e non piemontesi". Era l'eredità che l'Italia in fasce lasciava a chi l'avrebbe governata negli anni a venire.
di Gigi Di Fiore
ilmattino.it
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