martedì 18 novembre 2014

La Banca d'Italia conferma: «Il sud il vero motore dell'economia nazionale pre-unitaria»

Che il sud fosse più ricco del nord prima dell'Unità d'Italia non è una favoletta. A confermarlo non è uno studio filo meridionalista ma l'istituzione principe dell'economia italiana, ossia la Banca d'Italia. A giocare con il pallottoliere sono Carlo Ciccarelli e Stefano Fenoaltea in un rapporto di 678 pagine appena pubblicato dalla Banca d'Italia e relativo all'industria estrattiera e manifatturiera complessiva, misurata in lire costanti a prezzi del 1911. Al momento dell'Unità d'Italia la regione con la maggiore produzione industriale era la Campania, con 39,04 milioni di lire. Un valore superiore persino di quello della più estesa e popolosa Lombardia, che si attestava a 36,83 milioni. Il Piemonte era terzo a 29,89 milioni di lire. Seguivano con valori superiori a 20 milioni di lire Veneto, Toscana e Sicilia. Se la storia è orientata dall'economia allora la nostra storia, quella che fanno ancora studiare a scuola, andrebbe riscritta, partendo da questi valori che spesso vengono occultati. Banca d'Italia, quindi, con questo studio, riconosce il valore intrinseco di un Sud capace di camminare con le proprie gambe facendo impresa e sapendo gestire il denaro in maniera oculata in tempi dove non esistenvano incentivi europei, né derrate made in Usa o Urss. Napoli, capitale economica del Mediterraneo, completamente ridotta a brandelli da una politica nazione volta a riempire le casse del nord. Difatti, nella top five delle capitali economiche d'Italia, Napoli passa dal primo posto del 1861 al quinto del 1901. Praticamente intere risorse spostate dal sud al nord, comprendo l'operazione con un colpo di spugna e deviando l'opinione pubblica con la lotta al brigantaggio. Poi ci lamentiamo se in Afghanistan, si occultano interessi economici con guerre "portatrici di democrazia". Lo studio ha anche dei nomi eccellenti in calce alla risma ricca di conti e conticini. È infatti Ciccarelli a confermare il tutto avalando lo studio con anni di esperienza come docente a Tor Vergata e Fenoaltea al collegio Carlo Alberto di Moncalieri. Non sono gli ultimi arrivati, con oltre quindici anni di lavori di ricostruzione storica dell'economia italiana. «La forza industriale - si legge in una recensione comparsa sui media nazionali a amrgine dello studio - dell'Italia del 1861, va sottolineato, era nel complesso modesta, tuttavia la presenza di aree industriali in tutte le aree della penisola poteva far immaginare uno sviluppo equilibrato. Invece nel giro di pochi decenni la forza produttiva si concentrò in tre regioni (Lombardia-Piemonte-Liguria). E' interessante anche verificare cosa accadde in regioni d piccole dimensioni. Nel 1861 l'Umbria aveva una produzione industriale di 3,67 milioni contro i 4,17 della Basilicata, gli 8,87 della Calabria e i 10,28 degli Abruzzi. Ebbene la regione del centro Italia supera la Basilicata nel 1864, la Calabria nel 1887 e gli Abruzzi nel 1898. Il caso della Basilicata è clamoroso perché nel 1900 era esattamente al livello dei 4,14 milioni dai quali era partita, mentre l'Umbria era cresciuta di cinque volte. Il primato della Campania resiste solo due anni: nel 1863 – segnato dall'eccidio di Pietrarsa – la regione viene superata dalla Lombardia. Il sorpasso del Piemonte arriva nel 1881. Quello di Liguria e Toscana nel 1896. Le posizioni sono segnate e così quando la produzione industriale decolla, a inizio ‘900, gli effetti sui territori sono diversi. In Piemonte si assiste a un più 124% del valore della produzione tra il 1902 e il 1912 (da 90,12 a 201,56 milioni) e la crescita è ancora più impetuosa in Liguria (da 85,12 a 180,56 milioni) e in Lombardia (da 125,14 a 311,62). In Campania si passa da 67,78 a 142,47. In Sicilia da 49,94 a 76,29. Tutto ciò non rappresenta una novità per chi non si è fermato ai libri di scuola che parlano di un Nord industriale e di un Sud agricolo. Ma il primato della Campania non era mai stato certificato con tanta precisione». 
Snocciolando i dati ritroviamo di seguito la CLASSIFICA REGIONI PER VALORE PRODUZIONE INDUSTRIALE 
1861 

1. Campania 
2. Lombardia 
3. Piemonte 
4. Toscana 
5. Veneto 
6. Sicilia 

1871 

1. Lombardia 
2. Campania 
3. Piemonte 
4. Veneto 
5. Liguria 
6. Toscana 

1881 

1. Lombardia 
2. Piemonte 
3. Campania 
4. Veneto 
5. Toscana 
6. Liguria 

1891 

1. Lombardia 
2. Piemonte 
3. Campania 
4. Toscana 
5. Liguria 
6. Veneto 

1901 

1. Lombardia 
2. Piemonte 
3. Liguria 
4. Toscana 
5. Campania 
6. Veneto 

L'Italia che oggi abbiamo ereditato è quindi frutto dei fallimenti di chi ha voluto spostare il centro dell'economia in un'area che in passato stentava a far quadrare i conti. Volendo fare un esempio è come implementare un motore Ferrari sulla scocca di un'utilitaria. Dopo un giro di prova si rischia di rovinare sia il motore che il resto dell'auto. Ad oggi l'Italia è proprio l'emblema di scelte sbagliate costruite su soprusi e operazioni massoniche. Di contr'altare si potrebbe anche pensare a scelte economiche conformi ai tempi e di conseguenza anche evoluzioni fisiologiche che avrebbero comunque portato il sud in questo stato. Ma anche questa ipotesi è stata già vagliata anche dai due economisti, che hanno ribadito quanto sia importante la posizione strategica dei mercati campani e quindi non solo una questione di savoir-faire del Regno delle Due Sicilie ma soprattutto una concentrazione di elementi cruciali che hanno portato l'economia napoletana in vetta alla classifica. Gli economisti non hanno evidenziato, ma questo lo facciamo noi, come il processo di distruzione dell'economia del sud sia stato lungo e lancinante. Continui attacchi fatti di leggi e distrazioni di fondi, che ancora oggi lasciano il mezzogiorno ingessato rispetto alle atre aree del bel Paese. Una sorta di embargo economico che tutti i giorni si concretizza sui mercati nazionali, sia sul piano dei prodotti che su quello dei servizi. Siamo obbligati, come succedeva nel secondo dopo guerra, ad acquistare prodotti del nord, alimentando l'economia del nord e facendo passare la cosa come un normale processo economico. Nel concreto invece noi non scegliamo di acquistare ma siamo obbligati ad acquistare perché è stata eliminato ogni flusso concorrenziale proveniente dal nord. Nel concreto dopo il 1861 sull'economia meridionale si è abbattuta una rappresaglia così vasta da far concorrenza ad Hiroshima. Probabilmente questo studio sarà occultato come tanti altri già effettuati per continuare a dare ragione a chi dal nord pontifica affermando che sono loro il motore del'Italia e che il sud è la solita palla al piede fatta di politiche assistenziali e piagnistei. (fonte Banca d'Italia, IlSole 24ore, unionemediterranea)

Da http://social.i-sud.it/

martedì 4 novembre 2014

Il rapporto Svimez, il divario Nord-Sud e le leggi approvate dal primo Parlamento italiano

 Il Sud è al tracollo. Mai così male, negli ultimi 40 anni. Lo Svimez diffonde cifre da brividi: del 12,7 per cento crollati i consumi; del 4,2 gli investimenti. Solo due volte, dall'unità d'Italia in poi, al Sud ci sono stati più defunti che bambini nati. La prima volta fu nel 1867. 

Male, male, male: il divario aumenta e l'occupazione è come fu nel 1977, con 583mila posti di lavoro persi. Il sottosegretario Graziano Delrio parla di "Sud diventato la Germania dell'Est dell'Italia" e il presidente dello Svimez, Adriano Giannola, denuncia: "Negli ultimi 25 anni si è puntato solo sulla locomotiva Nord, dimenticando il Mezzogiorno".


C'è da chiedersi, parlando d'Italia, se privilegiare il Nord nelle scelte politico-economiche sia fenomeno soltanto degli ultimi 25 anni o se, per caso, il nostro non sia sempre stato un Paese nord-centrico nei suoi obiettivi di sviluppo. Il divario economico si ridusse negli anni del boom economico nei primi anni '60 del secolo scorso: lo dicono le cifre del Pil di quel periodo riportate anche dai professori Daniele e Malanima. Periodo che coincise con l'avvio della Cassa del Mezzogiorno, che significò nvestimenti e opere pubbliche in grado di trainare l'economia meridionale.


Una formula non nuova se già nel 1904, al momento dell'approvazione della legge speciale per Napoli, era teorizzata anche da Francesco Saverio Nitti. Che scriveva: "Occorre che Napoli cessi di essere città di consumi per diventare città di produzione. Niente industrie sussidiate, concessioni o forme speciali di protezione, la rinnovazione industriale non può però che avvenire in un regime speciale".


Parliamo esclusivamente d'Italia unita, parliamo delle scelte territoriali e geografiche fatte per eliminare squilibri, per armonizzare tutte le aree della penisola. E partiamo dall'inizio della nostra storia unitaria, guardando agli anni probabilmente premessa delle scelte successive. Scelte legislative, scelte economiche, scelte politiche.


Senza interpretazioni, parlano i fatti. Parlano i dati della prima legislatura, quella che cominciò il 18 febbraio 1861 e fino al 1865 vide avvicendarsi sei governi. Che volto diedero alla nazione in fasce i 443 deputati, eletti da 394.365 italiani? Tra quegli onorevoli, 192 venivano dalle regioni meridionali, 133 da quelle settentrionali, 107 dal centro e 11 dalla Sardegna. 


Oggi, Niki Vendola, governatore della Puglia, dice  che "l'unità del Paese si raggiunge con la realizzazione delle ferrovie". Se al momento dell'unità, esistevano più percorsi ferroviari al Nord che al Sud, dopo 153 anni cosa si è fatto per eliminare il divario di partenza? Logica avrebbe voluto che, da subito, già alla prima legislatura del regno d'Italia, si fosse scelto di finanziare somme maggiori di investimenti nei collegamenti ferroviari nel Mezzogiorno invece che nel resto della penisola.


E invece? Invece il quadro dei chilometri delle concessioni per opere ferroviarie dal 1861 al 1865 fornisce un insolito criterio di riequilibrio. Un quadro raccolto dal deputato della destra cavouriana Leopoldo Galeotti. Eccolo: 2937 chilometri nell'Italia "superiore", 1481 nella "media", 1805 in quella "meridionale". La somma di chilometri tra Sardegna (che fino al 1863 non aveva neanche un metro di ferrovia) e Sicilia fu di 1847.


Sempre Galeotti ci fornisce le cifre degli investimenti per le strade: 3 milioni 575367 per le "province subalpine" e 2 milioni 500763 per le napoletane. Non esistevano più le Due Sicilie, né il regno Sardo-piemontese. Era il regno d'Italia, con le sue prime scelte parlamentari. E questi sono i numeri.


Illuminanti anche alcune leggi approvate tra il 1861 e il 1865: un prestito di 500 milioni per limitare il disavanzo maturato "per costruire l'Italia". Ancora 226mila lire per il porto di Rimini. Poi, nel 1861, 8 concessioni ferroviarie nel centro-nord e due nel sud. Una delle due assai generica, fu approvata il 28 luglio: "costruzione di strade ferrate nelle province meridionali, napoletane e siciliane". Significativa la legge del 18 agosto, che istituì "succursali e sedi della Banca nazionale nelle province meridionali". Era la Banca centrale dell'ex regno Sardo-piemontese. Non fu consentita, invece, l'apertura di sedi del Banco di Napoli al nord.


Il 5 dicembre si pensò di abolire i "vincoli feudali nelle province lombarde". E poi si unificarono pesi e misure, moneta e codici secondo le regole in vigore in Piemonte prima delle annessioni. Il 1862 fu l'anno delle leggi per nuove tasse: sui biglietti ferroviari, sul registro, sul bollo, sulle società industriali, commerciali e delle assicurazioni, sulle ipoteche, sull'Università, sul bollo delle carte da gioco, sui redditi della ricchezza mobile. E poi, due anni dopo, un secondo prestito per appianare il disavanzo: stavolta di 700 milioni, nel 1863.


Questo fu il primo stampo dell'Italia unita ancora neonata. Inutile negarlo: l'impronta prevalente porta il marchio dei deputati del nord. Nei primi 20 anni d'unità ebbero il sopravvento, per una serie di ragioni che qui sarebbe lungo elencare, usi e leggi dell'ex regno subalpino. E lo ammise anche il toscano Leopoldo Galeotti, che nel suo consuntivo sulla prima legislatura pubblicato nel 1866 scriveva: "Non conviene dimenticare che il Parlamento, nella sua quasi totalità (eccettuata la parte piemontese), era composto di uomini nuovi e inesperti. Così la balia di fare e disfare rimase nella sostanza agli uomini della burocrazia. Quello che avveniva ai deputati, toccava anche ai ministri piemontesi e non piemontesi". Era l'eredità che l'Italia in fasce lasciava a chi l'avrebbe governata negli anni a venire.


di Gigi Di Fiore
ilmattino.it