sabato 5 dicembre 2015

Sicilia zavorra d’Italia? E’ l’esatto contrario. La bufala di Libero

Pur di andare contro la Sicilia, il quotidiano Libero, diretto da Maurizio Belpietro, non ha esitato a contraddire persino la Corte dei Conti che, nella relazione annuale di 'parifica' del Bilancio della Regione siciliana scrive l'esatto contrario. E' disinformazione o ignoranza? 

Egregio direttore di Libero, Maurizio Belpietro,

non le sarà parso vero di potere per l'ennesima volta "sbattere il mostro in prima pagina", presentando la Sicilia come la sentina di tutti i vizi nazionali, come la "Grecia d'Italia", come se la Grecia fosse pienamente responsabile, e non vittima, dell'usura della Trojka, dando la solita colpa alla solita Autonomia che esiste solo nella fantasia degli Italiani, i quali pensano che in virtù di essa tonnellate di miliardi varchino ogni anno lo Stretto a nostro favore e che, nonostante ciò, facciamo miliardi su miliardi di debito, incapaci di amministrare alcunché.

No, questa volta, Belpietro ha toppato alla grande. Avrebbe fatto meglio a non pubblicare un articolo tanto falso e tendenzioso, perché adesso le si rivolterà contro, e questa volta non soltanto a Lei, ma anche a tutti quelli che, da anni, spargono questa falsità a piene mani a telecamere riunite, colpendo la Sicilia tenendole le mani legate dietro la schiena, pensando che nessuno reagisca.

Questa volta ha sbagliato indirizzo, Belpietro, e ce ne deve dare atto. Si è chiesto perché gli altri giornali italiani si sono guardati dal dare questa notizia? Sono stati più accorti di lei, meno superficiali, hanno sentito puzza di bruciato per lo Stato, e hanno preferito tacere. Lei ha preso una cantonata non solo perché il paragone con la Grecia è sballato. Se è per questo la Grecia, vittima dell'usura europea, sarà forse sì paragonabile alla Sicilia, ma con la piccola particolarità che da noi l'usura veste i panni del tricolore italico, con la piccola particolarità che qui (cito la Corte dei Conti come potete leggere qui) è la "sleale collaborazione" dello Stato a causare il dissesto della Sicilia, della sua Regione, dei suoi Comuni, e quindi delle sue imprese e, in ultimo, delle sue famiglie.

Una sleale collaborazione, nella più svantaggiata delle proprie regioni, che grida vendetta, perché perpetrata contro quelli che in teoria sono i propri concittadini. Altro è l'egoismo di Schaeuble contro i Greci, a un certo punto per lui stranieri. Altro è il cinismo spietato dello Stato italiano che si paga le campagne elettorale degli 80 euro a spese della Sicilia e che scarica sempre sulla Sicilia, fino a che possibile, oltre al possibile, il proprio dissesto. Un atteggiamento irresponsabile del quale la Sicilia, se fosse adeguatamente rappresentata, dovrebbe chiedere giustizia nei Tribunali internazionali o alla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.

Ha preso una cantonata, egregio direttore di Libero, soprattutto perché lei, quella relazione, probabilmente non l'ha neanche letta, e se l'ha letta, evidentemente non l'ha capita, o ha fatto finta di non capirla. Ma sì… Parliamo male dei Siciliani, chi vuoi che reagisca? E invece noi reagiamo, perché sappiamo leggere. E leggiamo che lo Stato "nega alla Sicilia le somme dovute per Statuto, ignora le sentenze della Corte costituzionale, interviene pesantemente ai danni della Sicilia nelle manovre finanziarie nazionali".

Lungi da noi difendere Crocetta, e gli altri collaborazionisti, che questo 'sacco' hanno consentito, mettendo finanche la loro firma personale. Qui è in gioco la difesa della Sicilia in quanto tale, sulla quale non possiamo tacere. L'Agenzia delle Entrate, che per Statuto dovrebbe dipendere dalla Regione e che invece prende ordini dallo Stato, ha sottratto e dirottato, senza neanche dare comunicazione alla Regione, la bella cifra di più di mezzo miliardo di euro, scippato così, senza tanti complementi, operando un'illegittima "compensazione per cassa" (le nostre citazioni sono della Corte dei Conti non di qualche visionario sicilianista).

Da anni chi scrive obietta che il calcolo del gettito del reddito d'impresa maturato in Sicilia e riscosso altrove non è mai stato fatto correttamente. Ora la Corte dà ragione a questa interpretazione, sostanzialmente ritenendo ridicola somma quantificata per il 2014 (50 milioni), quando solo il Banco di Sicilia, quando era autonomo, fruttava alla Regione di tributi una somma di sei volte superiore. E per di più questa somma, ridicola, irrisoria e offensiva, non è stata nemmeno assegnata alla Regione, ma solo riconosciuta sulla carta. Stiamo parlando di un furto annuale ai danni della Regione di diversi miliardi di euro, all'incirca 4 miliardi: 4 miliardi di imposte siciliane, maturate in Sicilia, frutto del lavoro dei Siciliani, e dirottate a Roma. La Corte dei Conti certifica che il concorso alla finanza statale, superiore a un miliardo per il solo 2014, non ha copertura finanziaria, perché lascia la Regione incapace di far fronte ai servizi di cui deve farsi carico per Statuto. In pratica, la Corte dice quello che noi diciamo da sempre: lo Stato lascia le funzioni pubbliche, e quindi le spese, alla Regione e ai Comuni, e si porta a casa le risorse tributarie, come un brigante aggiungiamo ora.

Belpietro ricorda che i dipendenti della Regione costano un miliardo l'anno, ma dimentica di dire che questo è dovuto al fatto che i Siciliani, i dipendenti pubblici, se li pagano da soli, e quindi li mettono a carico della Regione, a differenza di quanto accade in Italia. Questo vecchio argomento, trito e ritrito, falso e tendenzioso, lo sentiamo ogni giorno. Come lo dobbiamo spiegare che da noi gli statali sono regionali? Come ve lo dobbiamo spiegare che, se sono regionali, ce li paghiamo noi, e quindi lo Stato ci guadagna pure. Niente, non c'è peggior sordo di chi non vuole sentire.

La Corte denuncia lo scandalo della rinuncia al gettito derivante dal contenzioso con lo Stato, imposta da Roma e supinamente accettata dalla Presidenza della Regione siciliana di Rosario Crocetta. Solo solo le somme legate all'aumento dell'accisa sui carburanti hanno fruttato una perdita certa superiore ai 200 milioni l'anno, e - se contiamo tutto, tra residui attivi verso lo Stato illegittimamente cancellati e contenziosi cui la Regione ha rinunciato - siamo oltre i 10 miliardi! Siamo oltre alla cifra che in Grecia sta facendo esplodere l'euro, e la Sicilia, da sola, schiacciata e spremuta da Roma all'inverosimile, sta sopportando in silenzio questo genocidio. Ma di che parla, Belpietro, ma di che sta parlando?

Il debito è arrivato a 9 miliardi? A parte il fatto che, se fossimo uno Stato indipendente, sarebbe ancora poco più del 10 % del PIL, mentre l'Italia è oltre al 134 % (il bue che dice cornuto all'asino)… Ebbene, quel debito, imposto dall'Italia alla Sicilia è un debito immorale, e andrebbe ricusato. La Sicilia, privata delle sue entrate naturali, viene costretta a indebitarsi per tirare a campare. Uno di questi mutui, il primo da 1 miliardo, è stato imposto da Roma per pagare con prelazione le case farmaceutiche nazionali, con nessun ritorno sul territorio, imponendo al contempo un mutuo a tasso variabile più esoso di quelli che il FMI applica alla Grecia, costringendo una generazione intera di Siciliani ad una fiscalità di svantaggio permanente: ma di che stiamo parlando?

Articolo sostanzialmente non vero e di parte, quindi, quello pubblicato dal suo giornale. Ma c'è una novità, che Lei e altri in Italia devono sapere. E cioè che ora molti siciliani sanno, e si sono stufati, e sono pronti ad andarsene. Sì, questo razzismo colonialista ha fatto risorgere il Separatismo. Perché la Sicilia non ha alternativa, perché è l'Italia, fallita, la zavorra della Sicilia e non viceversa. Con chi ve la prenderete quando ce ne andremo? Si faccia spiegare da Bechis, che qualche anno fa fece sul suo giornale un bell'articolo sull'argomento, perché la Sicilia ha convenienza ad andarsene.

La Sicilia Grecia d'Italia? Sì, nel senso che al posto della Trojka che là succhia il sangue dei greci, qui abbiamo lo Stato italiano che si comporta esattamente allo stesso modo. Loro forse si sono liberati, speriamo che presto tocchi anche a noi.

mercoledì 20 maggio 2015

Istat, l'Italia fuori dalla crisi ma il Sud rimane sempre più indietro

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Il Sud rimane indietro. I segnali positivi percepiti tra la fine dell'anno scorso e questa prima parte del 2015 si fermano al Centro-Nord. "Le aree del Mezzogiorno - scrive l'Istat - si caratterizzano per una consolidata condizione di svantaggio legata alle condizioni di salute, alla carenza di servizi , al disagio economico, alle significative disuguaglianze sociali e alla scarsa integrazione degli stranieri residenti". Qualche dato: nel Mezzogiorno il reddito è più basso del 18 per cento rispetto alla media nazionale, nelle aree interne più povere la differenza sale al 30 per cento. Il che si riflette naturalmente nei consumi: le famiglie residenti al Sud spendono poco più del 70 per cento della media nel resto del Paese. Tanto che oltre un quarto della spesa nel Mezzogiorno è per i beni alimentari, di prima necessità: si arriva a quote del 28 per cento contro quote che nel Centro-Nord si fermano al 13 per cento per i livelli più alti. Infine la quota delle persone in cattive condizioni di salute è del 20 per cento al Sud e del 17,7 per cento nel Centro-Nord.

di Rosaria Amato
repubblica.it
20/05/2015

martedì 19 maggio 2015

Ecco perché non è vero che al Sud la vita sia meno cara

I poveri - scriveva Esposito in un articolo sul Mattino del 30 ottobre 2013 - sono in aumento ma meno della metà vive al Sud. Parola dell'Istat. Dieci anni fa non era così: tre poveri su quattro abitavano nel Mezzogiorno. Sempre per l'Istat. Cos'è successo di così miracoloso per ridurre - rispetto al resto d'Italia - la quota di poveri meridionali? Non ci dicono, altre statistiche, che il divario Nord-Sud negli ultimi anni si è andato allargando?

Il miracolo dei poveri spariti dalle statistiche è dovuto a un calcolo errato. Ad affermarlo è il ministero dello Sviluppo economico, il quale si raccomanda di «non utilizzare i dati sui livelli dei prezzi diffusi nell'ambito dell'Osservatorio nazionale prezzi e tariffe per confronti fra le diverse città». Tuttavia l'Istat il confronto sconsigliato lo fa, con il risultato che una famiglia di tre persone che guadagna 1.000 euro al mese è considerata povera se vive in un paesino del Centronord mentre diventa agiata in una città del Mezzogiorno. E non è un problema di percentuali bensì di persone: quando si vara un sostegno ai poveri, come la Social card, con le tabelle dell'Istat il beneficio va più al Centronord che al Sud, perché 1,2 milioni di persone del Mezzogiorno sono state liberate dal peso della povertà con colpo di spugna statistico.

Per smascherare un prestigiatore occorre filmarlo e guardarne i movimenti al rallentatore. Ripercorriamo quindi passo passo cosa è accaduto sul monitoraggio della povertà, partendo dall'ultimo fotogramma. Ieri in Parlamento il presidente dell'Istat, Antonio Golini, è stato ascoltato nel corso delle audizioni sul disegno di legge di Stabilità. «Dal 2007 al 2012 - ha detto - il numero di individui in povertà assoluta è raddoppiato (da 2,4 a 4,8 milioni). Quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila) risiede nel Mezzogiorno». Quasi la metà vuol dire che ci sono più poveri al Centronord che al Sud. Possibile?

Golini fa riferimento al 2007-2012, ma se fosse tornato indietro al 2002, avrebbe dovuto ricordare che i poveri assoluti erano 2,9 milioni dei quali quasi il 75% (2.165.000) residenti nel Mezzogiorno. Come mai i poveri stanno aumentando soprattutto al Centronord?

Altro fotogramma: fino al 2002 la povertà «assoluta» è stata calcolata con un modello valido in tutta Italia. Si prendeva cioè un paniere di prodotti essenziali per vivere e si verificava il costo. Per una coppia con un figlio il livello di povertà assoluta era quell'anno di 763 euro e c'erano 2,9 milioni di italiani (il 5,1% della popolazione) sotto la soglia.

Nel 2003 (in pieno governo Berlusconi-Bossi-Tremonti) l'Istat decise di calcolare le soglie di povertà su base territoriale. Si aprì una fase di studio che durò due anni e nel 2005 l'Istat tirò fuori i conteggi con parametri diversi per Nord, Centro e Sud.

Non è sbagliato entrare nel dettaglio territoriale, l'importante è farlo con metodo. L'Istat tramite i Comuni capoluogo di provincia misura da decenni il livello dei prezzi per migliaia di prodotti, con l'obiettivo di calcolare l'inflazione, cioè l'aumento dei listini. Per raggiungere tale risultato ogni messo comunale va nei negozi campione e a gennaio chiede all'esercente per ciascun prodotto qual è il «più venduto», dopo di che va a guardare il cartellino del prezzo e, mese dopo mese, scrive se il listino cambia.

I prodotti più venduti, ovviamente, non sono gli stessi in tutti i negozi italiani. Lo spiega la stessa Istat: «I prezzi elementari rilevati fanno quindi riferimento a specifiche molto diverse in termini di marche, varietà e packaging, non comparabili tra le diverse unità territoriali (capoluoghi di provincia) presso le quali viene effettuata la rilevazione». Occhio: «non comparabili». Solo che, in assenza di altre rilevazioni, per calcolare il paniere dei poveri l'Istat si accontenta dei dati che ha. E compara prezzi incomparabili per sua stessa ammissione.

Per esempio nel mese di agosto la pasta di grano duro più venduta nel più economico negozio di Milano costava 0,96 euro; a Roma 1,12 euro; a Napoli 0,78 euro. Ma si parla della stessa identica pasta? No. E c'è la controprova. La Nielsen in una ricerca (titolo: «Fare la spesa al supermercato? Al Sud costa di più») ha verificato i prezzi di prodotti identici nei supermercati italiani (120.000 beni) scoprendo che la regione più cara d'Italia è la Calabria (indice 104,60) mentre la più economica è la Toscana (indice 94,60). E la Nielsen non si è neppure sorpresa, spiegando che le differenze si giustificano con i costi logistici e con le caratteristiche della rete distributiva.

Alcuni prodotti, come gli ortaggi freschi e il pane, al Sud costano effettivamente di meno, tuttavia i beni industriali sono decisamente più cari e se il paniere Istat dice il contrario è perché misura i beni più acquistati, peraltro non dai poveri ma dall'insieme dei consumatori. Insomma: è ovvio che al Sud in media avendo meno soldi in portafoglio si fa la spesa acquistando prodotti di qualità inferiore. Ciò accade anche per gli elettrodomestici, i cui prezzi secondo le associazioni dei consumatori sono tendenzialmente più cari al Sud. Ma se si guarda non al listino più basso in assoluto bensì a quello del bene più venduto ecco che la «cucina non elettrica» inserita nel paniere Istat per i poveri costa 295 euro al Nord, 331 al Centro e 202 nel Mezzogiorno. Il televisore costa 238 euro al Nord, 183 al Centro e 171 al Sud. È lo stesso modello di cucina o di tv? No: è il prezzo del prodotto più acquistato.

Se si convincono gli italiani che al Sud la vita costa meno, sarà facile far accettare stipendi diversi per insegnanti, infermieri e carabinieri, o pensioni sociali modulate in base al presunto minore costo della vita.

I fotogrammi iniziano a definire l'accaduto e a delineare il finale, lo scopo: a che serve cancellare 1,2 milioni di poveri del Sud dalle statistiche? L'ultimo fotogramma riporta al Parlamento. Dopo l'audizione di ieri dell'Istat c'è stato un impegno dei politici a far qualcosa di concreto per i 4,8 milioni di poveri di cui 2,5 milioni al Centronord e 2,3 al Sud. Ecco, sapere che in realtà il conteggio corretto certificherebbe 1,3 milioni al Centronord e 3,5 milioni al Sud forse renderebbe il sostegno ai poveri meno necessario. (cit.)

martedì 21 aprile 2015

Unità d’Italia: la strage dimenticata di Roseto Valfortore

Questa è una storia come tante che, o per vergogna, o per convenienza, o per quant'altro, è stata per decenni tenuta segregata in un cassetto.

Roseto Valfortore è un paesino di mille anime arrampicato sulle montagne dell'Appennino Dauno, in provincia di Foggia. Un luogo accogliente dove gli abitanti hanno ancora il tempo e la volontà di regalare un sorriso ai visitatori che vi giungono.

Ma è anche un territorio che ha dentro di sé una ferita storica che mai nessuno gli ha riconosciuto; questa è la vicenda di 4 ragazzi di appena vent'anni e di un adulto, padre di famiglia, che furono trucidati dai garibaldini a causa delle loro simpatie per i Borbone.

Tutto avvenne la sera del 7 novembre 1860 quando i 5 furono allineati ad un muro e passati alle armi da chi era appena sopraggiunto e definiva se stesso "un liberatore". A nulla valsero le suppliche di pietà che i ragazzi invocarono ai carnefici, a nulla valsero le grida delle donne che assistettero impotenti all'esecuzione.

Questa triste vicenda, ancora una volta, non sarebbe mai venuta fuori se non ci fosse stata la caparbietà e la voglia di sapere di uno studioso, il prof. Michele Marcantonio, che scrisse nel 1983 un libro in cui raccontava l'eccidio (Abbasso la guerra, ossia tre passi a ponente Italia Letteraria, Milano 1983).

Libro, ancora una volta, corredato da documenti storici ufficiali che provavano l'accaduto, ma che furono deliberatamente ignorati. I padri della patria, infatti, dovevano apparire ancora una volta senza macchia e senza peccato! Questo fu l'ordine impartito agli storici.

Proprio grazie a tali testimonianze scritte si è potuta realizzare una ricostruzione dettagliata di cosa avvenne quel triste giorno; si riporta integralmente uno stralcio tratto da Il Frizzo, giornale di Lucera:

"I cinque vennero allineati lungo il muro che guardava alla torretta, di fronte al plotone. L'aria rigida, la pioggia, che ora con furia, il vento, fatto ora cattivo, che tempestava il viso dei condannati con bordate d'acqua gelida e dura come grossi grani di sabbia, e, forse, il contenuto di quel biglietto consigliarono il generale a far presto, a sbrigarsi.
Nell'estremo tentativo di muovere a pietà, tre dei condannati, cioè Giuseppe Cotturo, Vito Sbrocchi e Leonardo Marrone, s'inginocchiarono nel fango:
– Pietà! Siamo innocenti!
Parole e lacrime alla pioggia e al vento che mugghiava nella siepe e sui tetti.
– Pietà di noi! –, fece Nunzio.
Il quinto, più di là che di qua (è Liberato Farace, 22 anni appena, ferito a morte presso la propria abitazione dalle camicie rosse) era ricaduto in un'assenza totale e si teneva ritto al muro come un tronco senza vita. Il sergente rizzava in alto la sciabola come un ricurvo dito d'acciaio guardando fisso il generale.
Il sergente non batteva ciglio.
Ecco…
Il generale fece con l'indice un cenno distratto, quasi meccanico.
La sciabola piegò verso terra.
Fuoco!
I primi tre, a partire dall'angolo, caddero fulminati.
Al quarto un secondo colpo.
Il quinto, Liberato Farace, indenne.
Il fuciliere di grazia esplose su di lui il terzo e il quarto colpo. Solo quest'ultimo spinse fuori da quel giovane corpo il lieve alito di vita residuo."

tratto dal blog di Valerio Rizzo

mercoledì 11 marzo 2015

Fondi Europei, l’economista Viesti assolve il Sud: “Troppi luoghi comuni, le colpe sono altrove…”

I ritardi della spesa dei fondi comunitari non sono imputabili al Mezzogiorno che non sa o non vuole spendere le tante risorse disponibili, ma alla lentezza nella realizzazione delle opere pubbliche». Gianfranco Viesti, professore di Economia applicata all`Università di Bari, considerato uno dei maggiori esperti nello studio dell`economia del Meridione, va controcorrente in un'intervista rilasciata al Giornale di Sicilia. «Può sembrare strano, ma non molti hanno cercato di rispondere con precisione a questa semplice domanda. I più si accontentano di dire che il ritardo nella spesa dei fondi comunitari dipende dal Mezzogiorno. Ma se si guardano i dati contenuti nel portale OpenCoesione emerge una risposta molto più interessante. Il ritardo riguarda tutta l`Italia ed è riconducibile a una pluralità di cause: nuove e più complesse regole per l`attuazione dei programmi comunitari; una maggiore incidenza di grandi progetti infrastrutturali, la cui gestione è particolarmente complessa; i vincoli di bilancio che hanno ostacolato le capacita? di cofinanziamento statale e regionale. Non si tratta dunque, banalmente, dell`incapacità del Mezzogiorno ma di questioni più complesse e importanti. E superficiale dare la colpa al Sud. È un problema nazionale di lentezza delle opere pubbliche e non un difetto specifico del meridione. Informazioni molto utili per cercare di migliorare le cose, quantomeno nel periodo di programmazione 2014-20 che si è appena aperto».
fondi europei 2014-2020Ma non basta. «Se si suddividono gli interventi per natura (opere pubbliche e altro) e per territorio (Centro Nord e le tre aree Campania-Calabria-Sicilia, Basilicata-Puglia, Abruzzo-Molise-Sardegna) emerge che la lentezza del Sud nella spesa comunitaria è spiegata dai ritardi dei lavori pubblici rispetto alle altre tipologie di intervento. Se si prendono in considerazione, infatti, gli interventi che non rientrano nei lavori pubblici (e cioè acquisti di beni e servizi, contributi e incentivi alle imprese) a fine 2013 la velocità della spesa è uguale in tutto il Paese: le regioni del Centro Nord avevano speso il 70,9% del totale. Una percentuale inferiore rispetto alle regioni Abruzzo-Molise-Sardegna (79,8%), ma del tutto identica sia a Campania-Calabria-Sicilia (71,1%), sia a Puglia-Basilicata (70,1%). Il quadro cambia se si guarda invece ai lavori pubblici: la percentuale di spesa è molto bassa in tutto il paese, del tutto simile fra Centro Nord (44,4%) e Mezzogiorno, con l` eccezione delle regioni Campania, Calabria e Sicilia dove è inferiore (27,9%) . Il ritardo complessivo del Sud, di cui tanto si parla, dipende, dunque, dal fatto che al Sud i fondi europei vengono utilizzati soprattutto per le opere pubbliche, le quali sul totale della programmazione comunitaria 2007-2013 pesano molto di più (50%) che al Centro Nord (19,8%). I lavori pubblici cofinanziati dai fondi strutturali ammontano a 18,8 miliardi nel Mezzogiorno (circa metà del totale) e a 2,6 miliardi nel Centro Nord (circa il 20% del totale). Vi è poi un problema specifico di ritardi ancora maggiori in Campania, Calabria e Sicilia: regioni che specie all` inizio hanno avuto difficoltà notevoli nell`individuazione delle opere da finanziare».
Viesti assolve anche i Comuni: «Non sembra essere qui l`origine dei maggiori ritardi del Sud. In Sicilia la velocità della spesa dei Comuni non è bassa. L`avanzamento della spesa nel Sud è di  circa il 36 per cento contro il 38 nel Centro. In particolare, i comuni siciliani hanno speso il 40 per cento dei fondi, contro il 50 della Puglia e il 58 della Basilicata. Il maggior ritardo di Campania, Calabria e Sicilia diviene più chiaro guardando agli altri soggetti attuatori. Le province hanno risultati molto peggiori che nelle altre aree. L`avanzamento finanziario dei progetti dei grandi soggetti pubblici Rfi, per la realizzazione delle ferrovie e l`Anas per le strade, è ovunque modesto; ma nelle tre regioni in ritardo (dove valgono ben 3,5 miliardi di finanziamento pubblico) siamo al 34,2%; dieci punti meno rispetto a quanto gli stessi enti raggiungono in Puglia e Basilicata».
In sostanza, il problema è nell`incapacità di realizzare le infrastrutture. «Piuttosto che parlare di Nord che spende e di Sud incapace, bisogna concentrarsi sui lavori pubblici. Non è un problema di fondi europei, perché la progettazione delle infrastrutture è lenta indipendentemente da chi li finanzia, se lo Stato o Bruxelles. I tempi della progettazione sono biblici e spesso le imprese non sono in grado di portare a termine i lavori. Più che gingillarsi in spiegazioni anche interessate, comode solo a far destinare più soldi al Nord, conver- rebbe riflettere su queste gravissime criticità dell`intero sistema paese».
La Sicilia, lo scorso dicembre, aveva speso il 56 per cento, 2 miliardi e mezzo, del totale della programmazione. Da qui a fine anno resta ancora da spendere circa un miliardo e 800 milioni. C`è il rischio che queste somme tornino a Bruxelles? «In verità, le risorse europee perdute sono state sempre pochissime. I dati di consuntivo per il 2014 mostrano che si tratta di cifre molto contenute. Sappiamo però che le cifre da rendicontare per il 2015 sono enormi e quindi esiste un rischio concreto per la fine di quest`anno. Le regioni non stanno con le mani in mano, ma sono state avviate opere la cui realizzazione è lenta. Con il risultato che finché le infrastrutture non vengono collaudate non si può pagare alle ditte il saldo finale. Inoltre, le amministrazioni in tutta Italia ma particolarmente nel Sud non sono riuscite ad anticipare i soldi, perché il Patto di stabilità limita le spese che possono fare comuni e regioni. Siamo in un mondo schizofrenico. Da un lato si dice di spendere i fondi comunitari, dall`altro c`è il vincolo di spesa che non si può superare ogni anno. Tutti problemi che hanno contribuito a ritardare la spesa pubblica».

Fonte: www.ilsudonline.it