martedì 21 aprile 2015

Unità d’Italia: la strage dimenticata di Roseto Valfortore

Questa è una storia come tante che, o per vergogna, o per convenienza, o per quant'altro, è stata per decenni tenuta segregata in un cassetto.

Roseto Valfortore è un paesino di mille anime arrampicato sulle montagne dell'Appennino Dauno, in provincia di Foggia. Un luogo accogliente dove gli abitanti hanno ancora il tempo e la volontà di regalare un sorriso ai visitatori che vi giungono.

Ma è anche un territorio che ha dentro di sé una ferita storica che mai nessuno gli ha riconosciuto; questa è la vicenda di 4 ragazzi di appena vent'anni e di un adulto, padre di famiglia, che furono trucidati dai garibaldini a causa delle loro simpatie per i Borbone.

Tutto avvenne la sera del 7 novembre 1860 quando i 5 furono allineati ad un muro e passati alle armi da chi era appena sopraggiunto e definiva se stesso "un liberatore". A nulla valsero le suppliche di pietà che i ragazzi invocarono ai carnefici, a nulla valsero le grida delle donne che assistettero impotenti all'esecuzione.

Questa triste vicenda, ancora una volta, non sarebbe mai venuta fuori se non ci fosse stata la caparbietà e la voglia di sapere di uno studioso, il prof. Michele Marcantonio, che scrisse nel 1983 un libro in cui raccontava l'eccidio (Abbasso la guerra, ossia tre passi a ponente Italia Letteraria, Milano 1983).

Libro, ancora una volta, corredato da documenti storici ufficiali che provavano l'accaduto, ma che furono deliberatamente ignorati. I padri della patria, infatti, dovevano apparire ancora una volta senza macchia e senza peccato! Questo fu l'ordine impartito agli storici.

Proprio grazie a tali testimonianze scritte si è potuta realizzare una ricostruzione dettagliata di cosa avvenne quel triste giorno; si riporta integralmente uno stralcio tratto da Il Frizzo, giornale di Lucera:

"I cinque vennero allineati lungo il muro che guardava alla torretta, di fronte al plotone. L'aria rigida, la pioggia, che ora con furia, il vento, fatto ora cattivo, che tempestava il viso dei condannati con bordate d'acqua gelida e dura come grossi grani di sabbia, e, forse, il contenuto di quel biglietto consigliarono il generale a far presto, a sbrigarsi.
Nell'estremo tentativo di muovere a pietà, tre dei condannati, cioè Giuseppe Cotturo, Vito Sbrocchi e Leonardo Marrone, s'inginocchiarono nel fango:
– Pietà! Siamo innocenti!
Parole e lacrime alla pioggia e al vento che mugghiava nella siepe e sui tetti.
– Pietà di noi! –, fece Nunzio.
Il quinto, più di là che di qua (è Liberato Farace, 22 anni appena, ferito a morte presso la propria abitazione dalle camicie rosse) era ricaduto in un'assenza totale e si teneva ritto al muro come un tronco senza vita. Il sergente rizzava in alto la sciabola come un ricurvo dito d'acciaio guardando fisso il generale.
Il sergente non batteva ciglio.
Ecco…
Il generale fece con l'indice un cenno distratto, quasi meccanico.
La sciabola piegò verso terra.
Fuoco!
I primi tre, a partire dall'angolo, caddero fulminati.
Al quarto un secondo colpo.
Il quinto, Liberato Farace, indenne.
Il fuciliere di grazia esplose su di lui il terzo e il quarto colpo. Solo quest'ultimo spinse fuori da quel giovane corpo il lieve alito di vita residuo."

tratto dal blog di Valerio Rizzo